Un film perfetto che è diventato un’icona per rappresentare un paese: La Dolce Vita

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*Articolo tradotto dalla versione inglese.

Qualche mese fa “La Dolce Vita” di Federico Fellini ha festeggiato i 60 anni dalla sua prima. Ma non ne scrivo oggi per via di questo anniversario o perché questo evento ha ancora un valore per essere ricordato a 60 anni di distanza. Ne scrivo perché è il mio film preferito, il mio personale vincitore nella mia top ten delle migliaia di film che, come la maggior parte della mia generazione, ho visto nella mia vita. Tutti – e sicuramente durante un primo appuntamento! – si trovano ad affrontare ad un certo punto della conversazione la domanda “Qual è il tuo film preferito?”  (il che è divertente perché è una domanda che arriva mentre in genere  sto pensando se mi piace abbastanza il ragazzo da… e invece,  si parla di vecchi film..) ed io non ho mai avuto dubbi nel rispodere, “La Dolce Vita” è il mio film preferito. Lo adoro.

Il film ebbe la sua premiere il 2 febbraio 1960 al cinema Fiamma di Roma e, nonostante il tempo ed il bianco e nero,  non ha nessun alone d’antan ma, risulta ancora incredibilmente contemporaneo ed attuale. Ci sono diverse ragioni per cui lo amo ed una di queste è sicuramente il periodo storico in cui è stato immaginato e girato e, non mi riferisco a quello che viene descritto nel film, intendo il periodo culturale e sociale vissuto in Italia per 40 anni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine degli anni ’70, così come le conseguenze che di questo periodo viviamo oggi.

In realtà, questo filone narrativo, riguardante la storia d’Italia,  sarà una delle narrazioni del mio blog ma, per questo post, mi concentrerò sulla fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, il periodo in cui il film è stato immaginato, costruito e lanciato. 

Era un’epoca in cui il Paese viveva una grande espansione economica non più vincolata dagli imperativi della ricostruzione post bellica ma, era ormai capace di stare in piedi sulle proprie gambe, indipendentemente dall’ombra ingerente degli Stati Uniti negli affari di Stato e persino, in grado di raggiungere l’indipendenza energetica con l’ENI (una società pubblica). È il momento in cui, nel 1957,  è stata fondata la Comunità Economica Europea, plasmata e realizzata sui valori della pace e della collaborazione, attraverso il lavoro di persone come Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. L’Italia e l’Europa, emergendo dalle rovine della guerra e dalla conseguente ricostruzione, si liberarono dandosi nuove possibilità e speranze attraverso una progettualità condivisa.

Roma, era un centro di cultura e di cinema innovativo, era un tempo in cui era possibile avere come sceneggiatori intellettuali del calibro di Ennio Flaiano o Pier Paolo Pasolini, come nel caso de “La Dolce Vita”, ed era il tempo in cui era possibile incontrare al caffè “Rosati” artisti, intellettuali e scrittori dibattere sull’Italia con passione di arte e di futuro.

Dietro le quinti di “La Dolce Vita”

E’ stato il momento in cui, abbandonando la sua personale interpretazione del Neorealismo, Fellini si è spostato verso quella che era vista come un’estetica più contemporanea, un’estetica che esprimeva il tempo e, soprattutto, quello che era l’Italia e la società dietro la superficie scintillante e seducente del boom economico: in effetti, questo è un altro aspetto di ciò che mi fa amare tanto questo film, il fatto che è una storia drammatica nella sua particolare razionalità, e lo sostengo nonostante il fatto che regista abbia continuato a descrivere il film come una commedia.

L’Italia, al di là dei suoi confini, è spesso descritta come il paese della “dolce vita”, immaginandola, con questa definizione, come un luogo dove è possibile vivere una vita spensierata e gioiosa. Il film di Fellini, fraintendendolo completamente, è utilizzato per sostenere uno stereotipo da chi, apparentemente, crede che l’Italia sia il paese dove gli uomini adorano le donne come fa Marcello nel film (credetemi, non è vero! Meraviglioso Marcello ed idiota mondo!), o dove c’è un atteggiamento pigro ed indolente, mosso dalla voglia di divertirsi e di godersi la vita il più possibile.

Ad esempio, è certamente vero che abbiamo plasmato attraverso i secoli un tipo di stile di vita con un marcato senso dello spazio condiviso in cui vivere le nostre relazioni sociali, per via della conformazione urbanistica dei piccoli centri costruiti intorno a spazi pubblici, come è altrettanto vero che in Italia c’è un’ossessione collettiva per il cibo che richiede tempo per cucinare e tempo per consumare i pasti. Affermato ciò però, questi elementi non implicano un particolare o eccezionale gusto per il tempo libero o una visione romantica della vita. 

Certo, la scena più famosa del film, quella in cui Sylvia (Anita Ekberg) si immerge nella Fontana di Trevi con un Marcello che la guarda incantato, era destinata a diventare un’icona, perché è raro vedere così tanta bellezza concentrata in così pochi minuti di un film! Questo stupore, però,  per tanta meraviglia, fa dimenticare, o fa non vedere a molti, il senso di malinconia che pervade la scena, in cui si palesa evidente la distanza tra Marcello e Sylvia, quella della condizione reale della vita (Marcello) contrapposta alla condizione onirica (Sylvia, la star americana): infatti, nonostante la possibilità per Marcello di raggiungerla, anche solo per una notte,  è chiaro fin dal primo minuto che, quella sarebbe stata solo una pausa nella desolata cornice di vite così profondamente diverse.

Marcello Mastroianni in “La Dolce Vita”

Marcello Mastroianni, che è stato l’alter ego di Fellini per molti dei suoi film, è anche uno dei motivi del mio amore per questo film, il suo charme, la sua capacità di recitare in modo così naturale e la sua affascinante indolenza, lo fanno l’attore perfetto per il ruolo di giornalista di gossip, arrivato a Roma pieno di ambizioni e poi,  diventato pigro e disilluso sul suo talento e sulle sue possibilità di successo.

Andando in giro per Roma, per il suo lavoro e per la sua curiosità, che condivido ancora oggi a tale distanza,  incontra attrici, nobildonne, intellettuali… un mondo che Fellini immagina ma, anche conosce. Le persone che incontra, questo “circo” dell’umanità, non gli impediscono comunque di sentirsi sempre a parte, impossibilitato ad andare oltre. Questa però,  non è una storia sull’angoscia esistenziale o sulla crisi creativa (per questo avremo 8 ½),  ma è un racconto sul senso di disorientamento che si prova di fronte ad un mondo che sta cambiando velocemente, un mondo che un tempo sembrava pieno di possibilità e che portò il protagonista a trasferirsi dalla provincia a Roma. E’ un mondo dove la star americana è il simbolo di ciò che stava accadendo alla società italiana in quel tempo, una società che cercava di adeguarsi ad un modello sociale che, però, allo stesso tempo tradiva il suo passato e la sua storia.

Questo cambiamento sociale è uno dei temi principali anche dell’opera di Pier Paolo Pasolini (e non è un caso che sia uno degli sceneggiatori. Ma scriverò più tardi un post a lui dedicato). Si tratta del processo di perdita di identità e di finalità nel mio paese, di quella che è stata una sorta di rivoluzione culturale, economica e sociale che ha visto lasciare alle spalle secoli di vita modellata dal lavoro agricolo e dal lavoro delle botteghe artigiane e che, ha portato al progressivo abbandono di migliaia di piccoli paesi a favore delle  grandi città e di un mondo profondamente diverso.

Naturalmente, non si trattava solo di una sorta di corsa verso il “sogno americano” o di un modello capitalistico che si stava diffondendo in Italia e non solo ma, più specificatamente, si trattava del processo di industrializzazione tardiva e, quindi accelerata e della fase di “modernizzazione” che ne è conseguita (con molti dubbi su cosa possa significare modernizzazione), che hanno scaturito profondi cambiamenti nei rapporti sociali e nel modo in cui gli italiani hanno vissuto per secoli. Da una vita modellata dalle stagioni, dal lento scorrere degli anni, dalla scansione diurna del tempo nella regolazione del lavoro nei campi, alla routine della vita quotidiana vissuta nei piccoli centri per generazioni (l’Italia era un paese di migliaia di piccole città indipendenti), ai processi di lavoro del modello capitalistico, agli orari programmati dell’industria e delle macchine e dalla vita scandita nelle grandi e complicate città. 

“La Dolce Vita” riflette questo conflitto esistenziale ma, allo stesso tempo, guarda a coloro che hanno guadagnato da questo processo, a coloro il cui status privilegiato è venuto da questi mutamenti. E’ il caso degli intellettuali che, in questo mondo cambiato,  hanno trovato la possibilità di vivere delle loro intelletto e di viverne anche bene, ma questo agio, mai vissuto prima,  allo stesso tempo li vede pigri, pigri nel loro ruolo sociale di promotori di una coscienza critica  e di fautori di una contro cultura (“La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino segue le orme della critica de “La Dolce Vita”, analizzando brillantemente le conseguenze di questo processo, senza mai cadere in false speranze e guardando ad un mondo divenuto ancora più complesso e conflittuale, duranti gli anni passati tra i due film).

Alain Cuny (Steiner) e Marcello Mastroianni

Al centro di questa descrizione c’è l’affascinante personaggio di Steiner (Alain Cuny), l’amico intellettuale di Marcello, con la sua famiglia perfetta ed i suoi amici perfetti.

Ero un adolescente quando ho visto questo film per la prima volta e ricordo vividamente la grande ammirazione che, la mia mente ingenua, aveva per lui. Un uomo sofisticato, istruito, con una bella famiglia, una bella casa ed amici interessanti, era qualcuno da ammirare – fino a quando non ha ucciso i suoi due figli e poi se stesso. Sembra curioso ora, ma a quel tempo questo tragico epilogo stranamente non mi toccò, forse per la tipica passione adolescenziale per i drammi eroici o perché davo più importanza alla bellezza della sua vita. 

Questa presenza è continuata a parlarmi negli anni ma, è anche vero, che il mio approccio al cinema è sempre stato senza filtro, come se lo lasciassi assorbire attraverso la pelle, attraverso la sensibilità ed il piacere della visione.

In realtà, Steiner è stata una presenza ossessiva e ricorrente nella mia immaginazione, come una sorta di riferimento sofisticato ad una vita elegante e brillante. 

Tuttavia, molto recentemente, ha cominciato a tornarmi in mente ogni volta che ho incontrato persone con un potenziale apparentemente grande ma, senza un vero e proprio desiderio di impegno sociale. Mi sono guardata indietro, ho guardato e riascoltato la sua conversazione con Marcello che, trascorrendo le sue giornate nella vacuità di cui parlavo, gli chiedeva di tornare a trovarlo più spesso perché gli sarebbe piaciuto passare più tempo nell’idillio di Steiner, nel suo mondo e nella sua ammirazione per lui, un’ammirazione come la mia. Ma Steiner, rifiutando la stima di Marcello, confessava che non era abbastanza intelligente o coraggioso, per sfidare la vita reale e che, la sua impossibilità di vivere pienamente, lo aveva reso invidioso anche della più miserabile delle vite reali.  In questo, affermava di essere incapace di vivere la vita con passione, come accade in un’opera d’arte perfetta nel suo ordine incantato, perfetta come la vita che credeva di aver costruito. Ma va oltre, quando guarda il mondo, quando in quel momento per tanti poteva sembrare che le prospettive fossero rosee, piene di speranza e di ambizione, lui vede solo un mondo fittizio che copre una drammaticità tumultuosa nascosta.

Si potrebbe immaginare che con queste affermazioni metteva in guardia dal suo terribile gesto che stava per compiere ma, in realtà, non fa altro che  mettere in evidenza il dramma collettivo che l’Italia viveva silenziosamente alla luce dell’accelerazione dell’espansione economica, un’alienazione vividamente rappresentata nel film dai diversi paesaggi squallidi dei nuovi quartieri moderni di Roma in costruzione, un paesaggio che sarà replicato migliaia di volte in tutta Italia, un paesaggio fatto non di edifici moderni, ma di costruzioni desolanti e goffamente caotiche. Certo, era ancora un tempo in cui le attività culturali erano vivaci,  un tempo ricco di intellettuali impegnati, di artisti, di musica ma, la visione di Steiner era sul futuro, verso il tempo in cui i suoi figli sarebbero stati adulti. E così, quasi come una premonizione, vede il tipo di mondo che avrebbero vissuto all’inizio degli anni Ottanta e percepisce la sensazione di essere completamente incapace di fermare il progressivo declino culturale e sociale dell’Italia.

Ecco! Questo film parla al mio presente, perché se ero ancora troppo piccola negli anni ’80, è anche vero che sto anche vivendo il risultato di questo processo, sto vivendo il senso di instabilità e di pessimismo generale, di una società bloccata, dove molte delle conquiste sociali delle generazioni precedenti stanno lentamente scomparendo e dove, ogni anno più di 100.000 italiani preferiscono fuggire, essere in qualche altro posto, lontano da qui. 

Non solo perché non riescono a trovare lavoro, ma per sfuggire alla sensazione di vivere in una società in cui le casualità sembrano stagliarsi contro di noi e ogni semplice cosa banale, ogni transazione, ogni scambio, comporta sempre calcolo e complicazioni, dall’andare alla posta… all’esito di un appuntamento! Questo processo però,  non è iniziato con il virus, è un contagio che è in incubazione nella mia società da molto tempo ormai, divenendo a volte critico, altre volte rimanendo tranquillo. ..E forse Steiner immaginava che questo virus lo stavamo portando dentro di noi. O forse non lo immaginava, ma oggi possiamo dire che sì.

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